Quello di Rossini è un caso. Debutta a soli 18 anni e sbaraglia tutti i compositori allora in circolazione, facendoli apparire superati e superflui. La sua genialità non è certo inferiore a quella di Mozart. Conquista l’Italia e poi tutta l’Europa. A Vienna il serissimo Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il filosofo che ha fatto penare tante generazioni di di studenti, non ha orecchie che per Rossini. Si impone a Parigi come musicista italiano e come musicista francese. Con Le siège de Corinthe e Moïse et Pharaon fa la sintesi dell’opera italiana e della tragédie lyrique. Con Guillaume Tell apre la strada all’opera romantica. Molti suoi lavori sono in anticipo sui tempi. Come dire che il suo tempo verrà. Il fuoco brucia gagliardo, almeno fino agli anni Cinquanta dell’Ottocento. Poi si affievolisce. L’evoluzione della società e dei gusti fa sparire la più parte dei suoi titoli. Alla fine del XIX sec. Rossini è di fatto un compositore fortemente ridimensionato e la fruizione della sua produzione è stravolta,

Rimane in vita qualche opera comica, in particolare il Barbiere di Siviglia, che la tradizione ha ridotto ad una farsa, perdendo per strada l’autentico volto di una commedia raffinata. Il repertorio serio, per il quale era famoso, è naufragato, lo si esegue pochissimo e male.

Che cosa è successo?

É finita la stagione del belcanto. L’opera lirica cerca e trova altre strade, per le quali si forgia un diverso stile. Nel giorno di qualche decennio i cantanti non sono più in grado di eseguire correttamente la vocalità belcantistica di Rossini, di affrontare e risolvere il canto di coloratura, i gorgheggi, che sono l’asse portante del suo linguaggio. Il pubblico non riesce e non vuole più capire la natura di quel mondo, non comprende come una situazione tragica possa essere risolta a colpi di gorgheggi. Il belcanto è astratto e l’opera cerca il realismo. La progressiva difficoltà dei cantanti a fare fronte alle esigenze del canto rossiniano non è dovuta ad una intrinseca incapacità, ma alla necessità di assecondare nuove richieste. Da Rossini a Verdi la coloratura è progressivamente sparita dalla vocalità sia dei personaggi maschili che femminili. Sopravvive solo in alcune figure femminile dell’opéra lyrique francese e viene utilizzata dai compositori per rappresentare tipi di donna delicati e fragili. I compositori della Giovane Scuola (Puccini, Cilea, Giordano, Mascagni, Leoncavallo) seguono la strada già segnata da Verdi e si allontanano ancora di più dall’estetica del melodramma rossiniano. Se si aggiungono il successo e la diffusione della produzione wagneriana, si può comprendere in che misura si vada determinando l’eclissi di Rossini. Tra gli studiosi si fa facendo strada l’idea che Rossini debba essere relegato all’opera buffa, della quale, sarà bene dirlo, vengono eseguiti pochissimi titoli, se non il solo Barbiere. Si fa leva sull’aneddoto, inventato di sana pianta, di una visita di Rossini a Beethoven, che avrebbe arringato il compositore italiano, gridandogli di darci ancora altri Barbiere di Siviglia.

L’incomprensione tra la critica-musicologia diviene totale. La parabola di Rossini viene considerata un percorso verso la liberazione dal belcanto, avvenuta finalmente in Francia e in particolare con Guglielmo Tell. In quell’opera Rossini si sarebbe finalmente dimostrato capace di scrivere qualcosa di riconducibile al dramma musicale. Belcanto è sinonimo di vuoto virtuosismo e di gratuito sfoggio di inutile bravura. Un direttore come Toscanini non si sarebbe mai accostato ad un’opera come Semiramide e la fine dell’Ottocento ignora che Rossini aveva dato formidabile prove proprio nell’opera seria, dimostrandosi un drammaturgo tra i più completi e raffinati. Giuseppe Radiciotti, che tra il 1917 e il 1929, pubblica una monumentale biografia di rossini, per certi versi la prima biografia scientifica, dedicata la compositore, viaggia su questa lunghezza d’onda. Questo stato di cose è destinato a durare fino agli anni Cinquanta e a peggiorare ulteriormente fino ad arrivare al completo fraintendimento. Nel 1941 uno scrittore di fama, come Riccardo Bacchelli (per intenderci l’autore di molti romanzi due dei quali di grande spolvero, Il mulino del Po e Il diavolo al Pontelungo) scrive un Rossini che dimostra una completa ignoranza della realtà.

Nel 1956 Luigi Rognoni, musicologo di indubbia fama, scrive un volume, Rossini, che incontra grande considerazione. Sosteneva l’assurda teoria di un compositore che solo con il Guglielmo Tell era giunta a comporre un’opera degna di considerazione. Il motivo era molto semplice: lo stile del Tell era (per Rognoni) un esempio di dramma musicale, che preludeva secondo i sostenitori di questa tesi del tutto sballata e priva di fondamento, al dramma musicale wagneriano e poi alla produzione del Novecento, che aveva voltato le spalle all’opera italiana, spettacolo circense ed edonistico. Non parlaamo poi di quella seria rossiniana, con re trillanti, regine impegnate a snocciolare gorgheggi con in più l’aggiunta di voci femminili che agivano en travesti. Non si tratta di parti di giovani paggi, come il Cherubino della Nozze di Figaro, ma di condottieri: uno scandalo! Non dimentichiamo che questa condanna moralistica (si trattava di una moralità ideologica) colpisce contemporaneamente il barocco e i castrati. La tesi del Rognoni, insegnata per decenni nelle università italiane, evidenzia la totale incapacità di comprendere le ragioni del mondo del belcanto, applicando all’analisi delle opere di Rossini categorie estetiche che non hanno nessuna ragione di essere. Il cambiamento del linguaggio del Rossini francese rispetto a quello italiano è semplicemente legato ad una serie di considerazioni pratiche. La Francia ha rigettato il fenomeno degli evirati cantori fin dall’inizio del melodramma ad opera di Lully. La Francia ha sempre coltivato un genere, quello della tragédie lyrique, dove il canto si incontra con una sorta di declamazione e dove alla melodia all’italiana si preferisce uno stile basato sulla parola. Si chiede ai cantanti di essere dei fini dicitori. Semmai dalla fine del Settecento è avvenuto il contrario di quello che sostengono i detrattori del belcanto: Gluck prima e Rossini poi hanno portato la melodia nell’opera francese. Rossini non vi aveva importato il canto di coloratura che all’Opéra non avrebbe peraltro trovato esecutori all’altezza della situazione. Ma negli anni Cinquanta e Sessanta in Italia l’unica che sapeva rimettere in ordine era Fedele D’Amico. Consiglio di leggere il magnifico saggio che il celebre e insuperato critico pubblico nel numero I-3 del Bollettino del Centro Rossiniano di Studi del 1991. Il pezzo è stato scritto nell’imminenza del bicentenario della nascita. Espone con chiarezza i termini della situazione.

La riscoperte di queste opere fu una rivelazione, e si consideri che stiamo parlando dell’opera comica, campo dove Rossini aveva già la via spianata dal successo del Barbiere. Anche quest’ultimo, tuttavia, non veniva eseguito a dovere. Il Barbiere di Siviglia è stata una delle prime opere che ho ascoltato, una delle prime che ho suonato al pianoforte, quando avevo 8 0 10 anni, e già allora rimase scandalizzato dalla discrepanza tra quello che leggevo sullo spartito e quello che sentivo a teatro: esecuzioni molto tagliate, volgari, incuranti del ritmo, della limpidezza, della leggerezza di quest’opera. Già allora riuscivo vagamente ad intuire qualche cosa che non andava e ricordo di averlo scritto quando avevo 18 anni. Per ciò che concerne l’opera seria era il più completo deserto e così si andò avanti per molto tempo. Bisogna ricordare che la Semiramide eseguita nel 1880 per l’inaugurazione del nuovo Teatro Costanzi, l’odierno teatro dell’opera di Roma, l’opera venne accolta come un cadavere; una cosa che non aveva più senso e poi dimenticata. Quando fu ripresa nel 1940 [ D’amico si riferisce allo spettacolo, che il 28 aprile inaugurò la manifestazione fiorentina, dirigeva Tullio Serafin, cantavano: Gabriella Gatti, Semiramide, Ebe Stignani, Arsace, Tancredi Pasero, Assur, Ferruccio Tagliavini, Idreno, n.d.a.]al Maggio Musicale Fiorentino (ed io ebbi il dispiacere di ascoltarla). L’opera era stata trasformata in qualcosa che non aveva nulla a che fare né con Rossini né con la Semiramide; quest’esecuzione lasciò nel pubblico l’idea che il Rossini serio fosse improponibile e da dimenticaree per sempre.

L’inizio della riscossa

Ma proprio in quegli anni qualcosa stava cambiando con la proposta di qualche titolo completamente dimenticato. Tullio Serafin, già della Semirande del ’40, ritornò al Rossini serio e al Maggio Musicale del 1952 propose Armida. Questa volta aveva a disposizione Maria Callas. L’operazione riscosse grande successo presso la parte più raffinata del pubblico internazionale. Dopo quella proposta bisognerò aspettare il Maggio Musicale del 1958 per ascoltare La donna del lago e solo il 1962 per Semiramide alla Scala. Si trattava di esecuzioni volonterose con la presenza di cantanti allora molto in voga. Ma nessuno di loro, con l’eccezione di Maria Callas e Joan Sutherland, sapeva che cosa fosse il belcanto e quale forza drammatica potesse nascondere un vocalizzo. Al di la di questo, c’era un problema ben più grave. Si eseguivano edizioni inaffidabili, manipolate dal tempo e dagli interventi spesso maldestri dello stesso Serafin. I tagfi venivano praticati senza pietà. Alcuni erani dovuti alla volontà di ridimensionare opere che nella loro interezza non avrebbero essere potute comprese dal pubblico oppure per ovviare all’incapacità di cantati di affrontare pagine dalla vocalità troppo complessa o ancora per togliere di mezzo pezzi che troppi virtuosistici e legati ad un edonismo vocale, che pareva inaccettabile.

Qualche esempio. Armida richiede cinque tenori. Nel 1952 è pressoché impossibile trovare tenori che sappiano eseguire adeguatamente le loro parti. Quella di Rinaldo è alleggerita. Ma la grande Aria di Gernando del I Atto è completamente tagliata. Ascoltati oggi Gianni Raimondi, Alessandro Ziliani, Antonio Salvarezza, Francesco Albanese, Mario Flippeschi, sono un disastro. La donna del lago si conclude con un grande rondò di Elena, “Tanti affetti”. Il pezzo fu completamente tagliato; Rossana Carteri, la protagonista, fu privaata della grande pagina scritta da Rossini. Fu sostituita da un Quartetto proveniente da un’altra opera. Cesare Valletti, che cantava la parte di Giacomo, era un valente tenore, ma non aveva la più pallida di come si dovesse affrontare un’aria rossiniana L’esecuzione di “O fiamma soave”, la pagina che apre il II Atto, è lì che lo dimostra. Chiunque lo potrà costatare ascoltando la registrazione live che documenta l’esecuzione fiorentina. In questa situazione Joan Sutherland è come un raggio di sole. Il soprano australiano, una delle più grandi belcantiste di tutti i tempi, è in grado di risolvere in maniera strepitosa la vocalità di Rossini. Ma nella Semiramide della Scala viene messa la centro di un cast inadeguato, con un direttore, Gabriele Santini, che non possiede le coordinate stilistiche per affrontare il belcanto: uno dei tenti epigoni di Toscanini, che trasporta nelle sue direzioni concezioni estranee al belcanto. Toscanini, come abbiamo già accennato, non ha mai dirigere opere di questo genere. Eppure il marito della signora Sutherland, Richard Bonynge, il musicista che ha intuito le possibilità della moglie e l’ha educata la belcanto, non è invitato a dirigere Semiramide. La spocchiosa e disinformata critica italiana dell’epoca, i soloni che firmano sui quotidiani, lo reputano (molti lo reputano ancora) solo il marito della signora. La Sutherland stessa viene guardata come un’ animale strano, un soprano di coloratura e, come tale, un oggetto ingombrante non in lienea con la pensosità degli intellettuali. Che hanno facile gioca ad irridere la sua discutibile pronuncia italiana, non capendo che la Sutherland realizza il dramma proprio nell’astrattezza di un canto in sé perfetto. Il limite, se di limite si deve parlare, non è della Sutherland ma dei materiali utilizzati. Le prime esecuzioni di Semiramide, che hanno per protagonista Joan Sutherland, sono in realtà un pasticcio con interventi sull’ordine delle scene, talune delle quali omesse. Pur tuttavia quelle esecuzioni sono il segno che si ci si sta avviando alla ri-scoperta di un grande compositore, di cui fino ad allora ben poco si sa e che invece ha molte carte non solo per essere importante, ma anche per piacere.

Gli Americani alla conquista di Roosini

Un anno importante per quella che posi si sarebbe chiamata Rossini Renaissance è il 1969. Quell’anno la scala di Milano programma l’Assedio di Corinto, che in realtà è la versione italiana de Le siège de Corinthe. Inutile sperare che allora si riproponesse un’opera francese di Rossini nella lingua originale. Non è ancor vinta oggi la battaglia per mandare in soffitta Guglielmo Tell e ascoltare sempre e solo Guillaume Tell. Prima delle recite programmate dalla Scala, L’assedio di Corinto si è ascoltato nel 1952 al San Carlo di Napoli, diretto da Gabriele Santini con il solito cast volonteroso e iadegueto. Renata Tebaldi, al d là della voce d’angelo, è estranea allo stile dell’opera. La Scala affida il progetto a Thomas Schippers. Il direttore americano, trai più grandi del nostro dopoguerra, ha una particolare attitudine per l’opera italiana del primo Ottocento, competenze nel belcanto o, almeno, la voglia di averne superando convenzioni e modalità consuete. In realtà fa un pasticcio nel senso nobile del termine, ma un pasticcio. Per la verità un gran pasticcio. Prende parti dell’Assedio di Corinto, ribadisco versione italiana de Le siège recupero parti del Maometto II. Il lettore deve sapere che Rossini aveva composto a Napoli Maometto II e che da quello avaeva poi rielaborato Le siège. Tra le differenze essenziali c’è n’è una sostanziale.

Nel Maometto II Neocle, che che si chiama Calbo, è parte scritta per voce di contralto. Al contrario la star dell’Opéra di Parigi, specializzato in parti da eroe, è un tenore ed un tenore che aveva voce in capitolo non solo all’Opéra, ma anche a Parigi. Adolphe Nourrit è un intellettuale di quelli che contano. Passando però, dal Maometto II a Le siège de Corinthe Rossini si è adattato ad un’altra usanza, quello di spianare la coloraura, vale a dire quei continui vocalizzi che sono delle componenti essenziali del suo stile italiano.

Nourrit non sarebbe stato in grado di vocalizzare e i vocalizzi in bocca a un tenore avrebbero scandalizzato il pubblico e la critica francesi. D’altronde chi a Parigi vuole ascoltare l’opera italiana e i virtuosi italiani non ha che andare a Les Italiens: un teatro specializzato nell’opera italiana. All’Opéra si deve afre diversamente. Sarebbe come se nel tempio del liscio, si programmasse del rock o in un concerto rock si invitasse Raoul Casaedei: non si può andare contro le usanze di un paese. Tra queste c’è la profonda avversione per le parti di eroe en travesti, che il pubblico non avrebbe per nulla accettato.

(continua)

maria Callas