Alla ricerca del tenore rossiniano.

Di Giancarlo Landini

Doverosa premessa

La volta scorsa ci siamo fermati sulla soglia dell’Assedio di Corinto, indicandolo come l’evento che, per certi versi, ci fece entrare in un momento più adulto della Rossini Renaissance. Ora cominciamo ad affacciarci sui cantanti rossiniani. Procederemo per corde vocali e cominceremo con il tenore. Ritroveremo quell’Assedio di Corinto, quando dopo il tenore, il basso, le voci dei buffi, incontreremo il soprano e il contralto, voce prediletta dal pesarese, cui lasciamo il compito di chiudere queste riflessioni.

Attendendo

La rivelazione del tenore rossiniano è avvenuta con deciso ritardo rispetto a quella del soprano, del mezzosoprano e del contralto. Non deve stupire. La Belcanto Renaissance è iniziata come un fenomeno al femminile. Per almeno un decennio primedonne in grado di affrontare con cognizione di causa il repertorio del primo Ottocento sono state accompagnate da tenori, baritoni e bassi che continuavano a cantare con uno stile inappropriato. Rossini non faceva eccezione. Per certi versi il divario era ancora più evidente, proprio per le competenze richieste dalla vocalità rossiniana.

L’Idreno della Semiramide scaligera del 1962 fu Gianni Raimondi, un ottimo tenore nel repertorio tradizionale, ma che era estraneo al vocalismo rossiniano in generale. La difficoltà di potere trovare tenori all’altezza della situazione ha comportato tagli rilevanti oppure esecuzioni che oggi possono essere considerate solo pionieristiche. Il lettore, che voglia compiere un attento itinerario, dovrà essere cauto nel fare di ogni erba un fascio.

Nel campo dell’opera seria potrà riascoltare “O fiamma soave”, intonata da Cesare Valletti nella Donna del lago del Maggio Musicale Fiorentino. Cesare Valletti è stato uno dei più rilevanti ed affascinanti tenori lirico-leggeri tra il 1947 (anno del debutto) e il 1967 (anno del ritiro). Educato alla scuola di Schipa, non aveva ben chiaro come dovesse essere affrontata una parte scritta per Giovanni David, tenore contraltino del primo Ottocento. Lo stesso Schipa, che pure ebbe in repertorio il Barbiere di Siviglia (lo debuttò nel 1911 al Teatro Ciscutti di Pola e lo eseguì assiduamente fino al 1950, quando lo cantò per l’ultima volta al Teatro dell’Opera di Roma) era del tutto estraneo allo stile rossiniano. E come lui il suo pubblico, compresi quegli ascoltatori della rete che lasciano commenti destituiti di fondamento in calce alle sue esecuzioni. Il lettore non avrà problemi a cercare su youtube la Sortita del Conte. Vi si reperisce quella che Schipa incise nel 1926 per la Victor (10 anni prima aveva già registrato il pezzo per la Pathé). Il tenore leccese era in forma smagliante. Non v’è dubbio che canti molto bene, che la voce sia emessa con una morbidezza ineguagliabile, che sfumi, che trovi nella sua voce il colore dell’amoroso. Ma spiana le agilità e neppure si preoccupa di accennarne qualcuna. Non ha alcuna nozione di quale fosse la vocalità originale di Almaviva. Questo significa che la lezione ottocentesca, arrivato fino a De Lucia, non è passata; si è del tutto persa. Mi sembra naturale che Valletti, allievo di questo maestro, non partisse avvantaggiato. Al contrario. Bisogna, però, ricordare che non era rimasto a guardare e nell’affrontare il Barbiere di Siviglia si era messo sulla strada giusta fino a cimentarsi con il Rondò del Conte d’Almaviva, “Cessa di più resistere” che incluse nella registrazione del Barbiere di Siviglia, da lui realizzata per la RCA. Ma intanto la parte di Almaviva non è da tenore contraltino, come invece quella di Giacomo e di conseguenza meglio calzava alle caratteristiche della sua organizzazione vocale. La tessitura finì per pesare, come finì per pesare la mancanza di una tradizione, che in qualche modo potesse guidare Valletti nell’approccio alla vocalità dell’opera seria di Rossini. Rimane da concludere: avesse debuttato trent’anni dopo, Valletti sarebbe stato, con ogni probabilità, un buon tenore rossiniano e avrebbe portato in dote a questo repertorio lo smalto di una voce apprezzabile. Bisogna prendere atto che, se era impossibile trovare modelli esecutivi corretti per l’opera seria, era già difficile orientarsi un giusto Almaviva. La tradizione interpretativa aveva assegnato il Conte ai tenori lirico-leggeri che si erano venuti configurando dalla seconda metà dell’Ottocento al primo Novecento. Si trattava di tenorini che non avevano nulla a che fare con i primi interpreti. Nella galleria degli Almaviva testimoniati dalle registrazione tra il 1918 e il 1948, non mancano voci ragguardevoli per il timbro carezzevole e dolce. Il lettore non avrà difficoltà a ritrovare in rete la voce di Bruno Landi, che cantò il successo il Barbiere di Siviglia al Metropolitan. Lo debuttò nel ’28 e lo cantò per 27 recite. Ma bastano due agilità a metterlo in difficoltà o meglio bastano due agilità per essere evitate oppure risolte in maniera grossolana. Non vi è dubbio che Landi emetta carezzevoli falsetti, ma siamo completamente fuori stile. L’osservazione è estendibile a Nino Martini. Per chi non sapesse Martini era un tenore lirico che negli States si costruì una bella fama prima attraverso un ciclo di concerti radiofonici e poi con l’attività teatrale. Il repertorio di Martini andava andava dal Barbiere alla Bohème, comprendendo anche i Puritani. Cantò il Barbiere di Siviglia per 18 sere al Met, dove era stato chiamato da Gatti-Casazza.  Ma in fondo questo vale anche per Giuseppe Di Stefano che, avendo debuttato come lirico-leggero, cantò anche il Conte d’Almaviva. Il lettore lo ascolti in rete nella Sortita del Conte; si tratta di un’esecuzione del ’49 da Mexico City. La voce era bellissima e il successo fu assicurato. Ma né lui né il pubblico sapevano da che parte si dovesse cominciare a cantare in modo corretto la parte di Almaviva. Il personaggio è assimilato agli amorosi donizettiani, come Nemorino o Ernesto.  La situazione non muta nelle sue esecuzione dell’opera di Rossini al Met. Vedremo cosa accadrà nei decenni successivi, ma intanto facciamo un passo indietro.

Lo strano caso di Fernando De Lucia. Le contraddizioni della Rossini-Renaissance 

Gli incontentabile (ma bisogna essere coraggiosi) che vanno alla ricerca dei documenti sonori del canto rossiniano applicato alla corda di tenore possono risalire ai dischi a 78 giri, registrato da Fernando De Lucia. Il rapporto discografico tra Fernando De Lucia e il Barbiere di Siviglia comincia nel 1902 con l’incisione di “Se il mio nome”, continua nel 1906 con “Numero 15” e “All’idea di quel metallo”, cantati con Antonio Pini-Corsi. Nello stesso anno segue “Ah! Qual colpo”, dove a Pini-Corsi si aggiunge la Huguet, celebre coloratura. Nel 1908 De Lucia torna all’opera di Rossini con la Sortita, la Serenata e “Ah!qual colpo”, cantato con la Galvany, una coloratura non meno celebre della Huguet. Si entra nella serie dei Fonotype Record e nel dopoguerra, per l’esattezza nel 1917, il tenore napoletano incide la Sortita del Conte e la Serenata. Lo stesso anno, ma qualche mese dopo, realizza una nuova versione di “All’idea di quel metallo” con Giorgio Schottler nei panni di Figaro. Dal giugno del 1918 realizza in pratica una sorta di prima incisione discografica del Barbiere di Siviglia: incide nell’ordine la Sortita, la Serenata, il Duetto del primo Quadro del I Atto, con il Figaro di Francesco Novelli, il finale dell’opera con la Rosina di Maria Resemba e il già citato Novelli e la scena iniziale II Atto con i sopracitati e Schottler che qui compare come Don Bartolo. Qualche mese dopo con lo stesso cast realizza “Finora in questa camera…Ehi di casa…Rosina: or son contento”, “E’ quel briccon che al Conte”, “Con la febbre…Buonasera”. Nina Sabatano è Berta e Stefano Valentino Don Basilio. In teatro De Lucia debuttò l’opera di Rossini al Real di Madrid nel 1888 e la lasciò al San Carlo nel 1908, che in pratica fu il suo ultimo anno di carriera. Dal 1909 al 1924 cantò saltuariamente, soprattutto in concerto, con l’eccezione della Bohème e della Fedora alla Scala nel 1916 e dell’Amico Fritz a Napoli nel ’17. Fernando De Lucia fu uno straordinario tenore, educato allo stile e alla tecnica dell’Ottocento. La voce era corposa, con una densità baritonale. Aveva seguito l’evoluzione del repertorio e di necessità si era convertito ai titoli di Puccini e della Giovane Scuola. Tuttavia non aveva valicato il confine che separava l’Ottocento dal Novecento, come invece aveva fatto Enrico Caruso. De Lucia sapeva ancora eseguire con cognizione di causa le agilità di forza, che erano caratteristiche degli autentici Almaviva. Se lo si ascolta, superando delle incisioni archeologiche, che richiedono una fruizione, molto attenta, si potrà avere un’idea abbastanza significativa di come era e di come avrebbe dovuto essere un baritenore rossiniano. Consiglio vivamente al lettore di ascoltare il finale dell’opera, quando il Conte si rivela a Rosina alla presenza di Figaro. Si tratta di un’esecuzione emblematica ed esemplare. La voce è robusta, il colore è scuro e baritonaleggiante. Il tenore esegue senza problemi le agilità di forza, snocciolandole con tecnica perfetta e conferendo loro la giusta funzione drammatica, che è quella di dichiarare l’amore con tutta la magniloquenza di un grande di Spagna. Trova il tempo di modulare dal piano al forte, arricchendo la frase con un pregevole gioco di chiaroscuri. Si prende tutte le libertà che oggi scandalizzano i filologi, ma che erano costitutive dell’antico stile. Sentendo De Lucia si comprende perché fosse una dei passi più attesi del Barbiere di Siviglia e procurasse al tenore un uragano di applausi. Consigli anche di ascoltare la Cavatina di Sortita, “Ecco ridente” nell’incisione che De Lucia realizzò nel 1908. La rete vi permette un ascolto esemplare, perché su you tube il lettore rintraccerà una registrazione che vi fa ascoltare De Lucia, mentre sul video scorre lo spartito canto e piano della celebre pagina rossiniana. Diciamo subito che non si tratta dell’edizione critica, ma in questa sede poco ci importa. Non sono necessarie grandi competenze per potere seguire lo spartito. Occorre, però, essere liberi da pregiudizi. De Lucia procede con assoluta libertà ritmica e modella la melodia solo sulle esigenze della frase. Sospira le note, come farebbe un innamorato che sotto delle finestre della ragazze che ha deciso di conquistare a tutto penso che alla quadratura ritmica della frase. Introduce puntature, si permette di variare, applica tutti gli artifici del belcanto, ne realizza lo stile. Non snatura mai la melodia di Rossini che viene rispettata e fatta ascoltare in tutta la sua fragranza. Esegue a meraviglia sia i passi fioriti nell’Andante che nell’Allegro. Per certi versi nessuno è mai riuscito a realizzare nulla di simile, perché la Rossini Renaissance nasce nell’alveo di un’impostazione della filologia che, suo malgrado, è figlia del Novecento e del toscaninismo.

Prima di procedere è necessario, però, fornire al lettore qualche chiarimento. Nel suo approccio all’opera italiana Arturo Toscanini ha perseguito con determinazione l’aderenza dell’interprete alla lettera della partitura. L’artista, prima fra tutti il direttore, non è il creatore, ma il fedele ed intelligente esecutore di quanto ha scritto il Compositore.

Verdi stesso aveva tracciato la linea in una serie di interventi epistolari, che chiarivano questa visione. L’evoluzione stessa dell’opera italiana verso una forma di teatro musicale ben diversa da quella del primo ottocento implicava di necessità questa fedeltà alla lettera. Il nuovo indirizzo veniva a mettere un freno agli arbitrii; su questo nulla da dire. Nulla da dire anche sulla forzata acquiescenza dei compositori allo strapotere dei divi dall’ugola d’oro. Come opporsi a Maria Malibran? Come frenare Adelina Patti? Come non cedere alle richieste di Giovan Battista Rubini?

Vero è che l’intero edificio dell’opera italiana del primo Ottocento era stato concepito dentro altre coordinate stilistiche che implicavano prima di tutto la libertà ritmica, mettendo la frase al servizio dell’espressione. Il tratto di Manuel Garcia junior, figlio del celebre Garcia, primo e storico interprete di Rossini, è chiarissimo. Negli anni Settanta Alberto Zedda aprì la strada al recupero filologico di partiture stravolte e bistrattate, ma non poté riaprire la strada alla rinascita di questa libertà esecutiva che ormai è uscita definitivamente dai nostri orizzonti. L’osservazione è volutamente paradossale, ma il lettore che voglia sognare che cosa fosse il melodramma belcantistico e quale fosse il grado di apporto dato dai virtuosi dovrà rifarsi a dischi, archeologici finché si vuole, quali quelli di Fernando De Lucia. Il lettore torni un’altra volta in rete e si rifaccia all’edizione integrale  (si fa per dire) del Barbiere, realizzata da De Lucia e ascolti con attenzione la Sorita del Conte. Rispetto all’edizione del 1908 la voce ha acquisito delle risonanze baritonali più evidenti. La voce di questo amoroso è anche quella di un grande di Spagna. L’emissione è morbida e rotonda e il cantante indulge alle sfumature in un procedere anarchico che farà rizzare i capelli al 90% degli ascoltatori moderni e ai filologi

Il teatro dell’Ottocento- piaccia o non piaccia- era questo, soprattutto in presenza di un divo sulla scena. In questo caso l’arte della coloratura sembra essersi attenuata o meglio De Lucia procede come vuole e come crede. Ma all’occasione sale in cattedra e fa sentire come sia la sua voce sia duttilissima, come possa indulgere sia ai passi fioriti risolti con voce leggera sia con voce ferma, alias ci fa sentire il sapore e il gusto delle agilità di forza. Purtroppo non abbiamo alcun Fernando De Lucia che canti “O fiamma soave” dalla Donna del lago, ma non c’è motivo di pensare che anche l’aria di Giacomo non dovesse essere affrontata con la stessa souplesse, con l’identica leggerezza e autorevolezza del Conte di De Lucia.

In “O fiamma soave”, l’aria di Giacomo, la scrittura è affrontata da Cesare Valletti in modo muscolare, ma è pur vero che per la prima volta il pubblico poté almeno vedere la sinopia di un’aria rossiniana. Peraltro il disco storico in questo caso non ci aiuta affatto e non poteva certo aiutare Valletti. Se si fosse guardato indietro c’era solo il deserto. A nessun suo celebre collega era saltato in mente di incidere l’aria di Giacomo. Sarebbe stata considerata una stravaganza e nessun marchio discografico avrebbe accettato di procedere alla registrazione. Non dimentichiamo che la Emi non ritenne opportuno fare incidere alla Callas Armida, cedette sul Turco in Italia e realizzò un Barbiere si poteva tranquillamente fare a meno.

Una postilla. Chi ci ha seguito fin qui, in questa immersione archeologica, non dimentichi di ascoltare la Sortita del Conte, incisa da Giuseppe Anselmi nel 1907. Anselmi fu tenore famosissimo, adorato dai madrileni. Il confronto servirà per cogliere che il rapporto di De Lucia con la coloratura e con la coloratura di forza era un qualcosa di particolare e forse di unico. Lo stesso Giacomo Lauri Volpi, che incise la Sortita nel 1920 non ha più coscienza del canto fiorito. Eppure aveva debuttato con lo pseudonimo di Rubini. Ma lui, come tutti, si era dimenticato che Rubini prima di essere un tenore romantico fu un formidabile virtuoso rossiniano. E lo rimase per tutta la carriera.