Ermione, ossia il virtuosismo tragico.
L’opera di Rossini, nel duecentesimo anniversario della prima, torna sul palcoscenico del Teatro di San Carlo in un nuovo allestimento.
Alcune notazioni su questa singolare partitura, in attesa dell’andata in scena.
Di Alessandro Mormile
Rossini fu profeta di se stesso quando affermò – secondo quanto scritto nella biografia di Léon e Marie Escudier (1854) – che Ermione “è il mio piccolo “Guillaume Tell” in italiano, ed esso non vedrà la luce del giorno fino a dopo alla mia morte”. Dopo il contrastato esito della prima, il pesarese, a differenza di come avvenuto in altre opere del periodo napoletano, non pose più mano alla partitura: non provò neanche a rielaborarla per le scene francesi, come fatto con Mosè in Egitto e Maometto II, e se si predispose a farlo (per Londra con l’Ugo re d’Italia) il progetto non andò a buon fine. Cosa frenava l’autore di musica così straordinaria dall’abbandonare ad un destino d’oblio un’opera che oggi è invece considerata un capolavoro, e che le riprese della metà degli anni Ottanta del secolo scorso hanno rivelato essere come uno dei frutti compositivi più interessanti della sua parabola creativa? Forse la consapevolezza che il pubblico non fosse ancora “maturo” per comprendere l’originalità di un lavoro che si allontanava dai gusti del tempo. E dire che negli anni della Restaurazione, Rossini fu fra i compositori più popolari ed amati della sua epoca.
Nel corso della permanenza al San Carlo di Napoli, quando il suo genio creativo ebbe la possibilità di dispiegarsi al meglio in un susseguirsi incalzante di produttività compositiva (grazie al sostegno dell’impresario Domenico Barbaja e alla presenza di cantanti di eccelso valore, fra cui l’inseparabile Isabella Colbran), Rossini regalò al pubblico partenopeo opere serie di valore assoluto e, soprattutto, sperimentò con esse nuove tendenze indirizzate a perseguire una valenza drammatica più pregnante, pur se assoggetta alla immancabile belcantismo che sempre contraddistingue la sua vena operistica.
Se si osserva la partitura di Ermione con giusta attenzione, esaminandola dopo che la moderna “Rossini renaissance” ha fatto il suo corso avvalendosi degli studi musicologici della Fondazione Rossini e del contributo imprescindibile e prezioso del Rossini Opera Festival, molti malintesi destati al suo apparire sulle scene napoletane il 27 marzo 1819 si sciolgono come ghiaccio al sole. Tutto viene rimesso in discussione, compreso il giudizio che Stendhal diede dell’opera nella sua “Vita di Rossini” affermando che “Ermione era un tentativo. Rossini, per cambiare, aveva voluto avvicinarsi al genere del declamato dato ai francesi di Gluck”, facendo così intendere che, attraverso le nervature espressive di tale partitura, potesse rivivere una novella tragédie-lyrique. Lo si evince non solo esaminando la struttura dell’opera, ma anche il soggetto di un libretto che Andrea Leone Tottola trasse dalla tragedia Andromaque di Racine, datata 1667, a sua volta basato sulla Andromaca di Euripide.
Siamo dinanzi ad un argomento sul quale pesa un concatenamento di eventi che hanno preceduto i protagonisti, segnando già a priori il loto destino. I personaggi di Ermione sono infatti eroi della rovinosa ed appena conclusa guerra di Troia, costretti a subire le conseguenze dell’agire dei loro genitori. Pirro, figlio di Achille e re dell’Epiro, nonostante abbia promesso di sposare Ermione, è preso da amore per Andromaca, vedova di Ettore con il quale la donna ha procreato Astianatte, il solo superstite della regale stirpe troiana. Anche Ermione, figlia di Menelao e della bella Elena (colei che ha causato la guerra per essersi invaghita di Paride fuggendo a Troia sotto la protezione di Priamo), ama Pirro. Andromaca per proteggere il figliolo Astianatte dai greci che ne vogliono la morte, finge di accettare di sposare Pirro, pronta poi a darsi la morte. Oreste, invece, già colpevole, su istigazione della sorella Elettra, della morte di Clitennestra e del di lei amante Egisto (a loro volta rei dell’uccisione di Agamennone), ama non corrisposto Ermione. Pur di unirsi a lei, gelosa di Andromaca, Oreste è però pronto a macchiarsi di un nuovo delitto accettando di ammazzare Pirro. Compiuto l’omicidio, l’uomo si presenta poi dinanzi ad Ermione quasi in preda ad un collasso psicologico con il pugnale ancora intriso di sangue. Siamo al gran finale, quando la protagonista invoca le Erinni, che puniscono l’autore del delitto da lei stessa indotto e del quale si è subito pentita, e mentre Pilade e i suoi trascinano via Oreste per sottrarlo all’ira del popolo, Ermione cade a terra svenuta (nella tragedia di Racine, invece, la protagonista si toglie la vita).
Una volta esaminate le fonti letterarie dell’opera, il collegamento con la tragédie-lyrique, di cui sopra si è accennato, potrebbe sembrare scontato, anche alla luce delle caratteristiche strutturali di un’opera in cui Rossini abbandona la cifra neoclassica che aveva ad esempio caratterizzato Tancredi (per altro dettata da tendenze stilistiche imperanti nell’Italia di quel tempo di Restaurazione) per pensare ad un nuovo corso dell’opera seria, elaborato appunto nel periodo napoletano, quando il genio pesarese sperimentò il superamento del numero chiuso con la creazione di grandi blocchi scenici, cosa che avverrà anche nel Maometto II, di solo un anno successivo all’andata in scena di Ermione. Grandi quadri drammatici, dunque, nei quali, per dirla con parole di Bruno Cagli, “il fuoco interno che covava sotto le ceneri classicamente composte del lavoro francese” si accende attraverso una scrittura che, tramite il canto spianato e fiorito, denota come Rossini volesse emulare nessuno, piuttosto intendesse aprire il suo teatro in musica a nuove vie all’interno di una singolarità compositiva che resta assolutamente personale, motivata solo ed unicamente dalla ricerca di rinnovati (e non imitativi) moduli espressivi. Una novella linfa creativa sembra così condizionare l’operato del genio pesarese, che non abbandona il belcanto, ma lo incastona in grandi pannelli ed in numeri di incredibile ampiezza, uno fra tutti la “Grande Scena” di Ermione, culmine di un secondo atto che è assai più breve del primo. In essa, quasi un melodramma nel melodramma, si ha la sigla più originale, o se volete audace ed ambiziosa, di quello che è stato l’impegno rossiniano nell’uscire dai soliti cliché belcantistici dell’opera seria, innervando la linea di una tragicità che si respira attraverso una struttura drammaturgica per quel tempo difficilmente assimilabile ai gusti di un’Italia ancora legata a precostituiti retaggi stilistici settecenteschi illuministici, dai quali, nonostante i molti passi avanti fatti dall’opera italiana nel periodo napoletano e nella Restaurazione, sembrava ancora difficile affrancarsi.
Ed ecco, dunque, un quadro di Ermione che pare per certi versi precorrere una di quelle scene di follia che si ritroveranno in tante altre opere dell’800, qui connotata con una tragicità travolgente, forse suggerita dalle capacità di Isabella Colbran stessa, che ne fu la prima interprete. Ermione, in preda ad opposti sentimenti (l’amore per Pirro, il desiderio di morire e quello della vendetta), inizia la scena con il recitativo “Essa corre al trionfo”, seguito dall’andantino “Dì, chi vedesti piangere” in cui si rivolge a Fenicio e gli chiede di riferire a Pirro della “amare lacrime” che sta versando per lui (le prime versate da un animo fino a quel momento incapace di umiliarsi), per le quali spera, se non amore, almeno pietà. Vi è poi un nuovo recitativo accompagnato che conduce all’andante “Amata, l’amai”, quando Ermione si piega al fatto di dover rinunciare all’amore per Pirro. Segue una marcia che accompagna il corteo nuziale di Pirro e convoglia nel moderato “Un’empia mel rapì!”, dall’andamento spezzato e concitato, che alterna frammenti melodici ad un declamato sillabico. Infine, con l’ingresso in scena di Oreste, si entra nell’ultima sezione, con la stretta concitata “Se a me nemiche o stelle”; è il momento in cui Ermione porge ad Oreste un pugnale e gli si promette a patto che lui uccida Pirro. In sintesi si ascoltano quattro sezioni di arie intervallate da recitativi drammatici di impronta gluckiana, da una marcia e da passaggi corali che danno l’idea di una dimensione strutturale completamente nuova per Rossini e per l’opera italiana di quel tempo.
Ma anche la Sinfonia dell’opera, con quell’intervento del coro fuori scena che lamenta la fine della grandezza di Troia incastonandosi fra i temi musicali di un andante introduttivo e di un allegro bitematico, libera le forme e le intreccia fra di loro in maniera assolutamente innovativo per Rossini. Gli intenti del pesarese – scrisse Philip Gossett – sono chiari: “la Sinfonia ha già la funzione di introdurre gli spettatori nel mondo del dramma. Saranno pochi, nell’opera, i momenti in cui questa tensione drammatica verrò meno”. Così capita anche in quelli che possono individuarsi a tutti gli effetti numeri chiusi di matrice belcantistica, vedasi la cavatina di Oreste “Che sorda al mesto pianto” (che in fondo è un duetto con Pilade) e l’aria di Pirro “Balena in man del figlio” (che si sviluppa in un ampio concertato), entrambe scritte per voce di tenore, ossia rispettivamente per due insostituibili big rossiniani del tempo quali Giovanni David e Andrea Nozzari; pagine che vedono l’intervento di pertichini (ossia di altri personaggi e del coro) che entrano nel tessuto connettivo dei numeri stessi rompendo ogni schema formale precostituito ma, nel contempo, non rinunciando al belcantismo che sempre caratterizza la linea vocale rossiniana.
Se al suo apparire Ermione fu accolta tiepidamente causa la ritrosia del pubblico nel comprendere la portata innovativa con cui Rossini perfezionava con quest’opera il suo linguaggio, oggi, ormai riconosciuta fra i capolavori di tale parabola compositiva, è eseguita poco per le difficoltà vocali che pretendono cantanti capaci di coniugare le linea altamente virtuosistica con la necessaria tragicità del dettato espressivo. Ne sa qualcosa la grandissima Montserrat Caballé, quando, nei panni della protagonista, portò l’opera in scena al Rossini Opera Festival per la prima volta in tempi moderni nel 1987, nell’ormai leggendario spettacolo di Roberto De Simone che vide al suo fianco Marilyn Horne, Andromaca e i due storici tenori rossiniani del Novecento: Rockwell Blake, Oreste e Chris Merritt, Pirro. Sul podio Kustav Kuhn. Un cast e uno spettacolo che hanno segnato una delle tappe più significative della “Rossini renaissance”, preceduta dell’esecuzione in forma di concerto a Padova nel 1986, quando Claudio Scimone la diresse contestualmente all’incisione discografica realizzata per la Erato, con protagonisti Cecilia Gasdia, Ermione, Chris Merritt, Oreste ed Ernesto Palacio, Pirro. In anni più recenti, l’opera è stata registrata anche dall’Opera Rara, con protagonista Carmen Giannattasio, Patricia Bardon, Andromaca, Paul Nilon, Pirro e Colin Lee, Oreste e la direzione di David Perry. A Pesaro l’opera è poi tornata nell’agosto del 2008 nell’allestimento di Daniele Abbado, con Sonia Ganassi nei panni di Ermione, Gregory Kunde, Pirro, Antonino Siragusa, Oreste, Marianna Pizzolato, Andromaca e la direzione di Roberto Abbado; dello spettacolo è stato realizzato un dvd pubblicato dalla Dynamic. Ma nel frattempo, ormai posto fine all’oblio che per tanto tempo aveva tenuto fuori quest’opera dai palcoscenici, Ermione approdò al Teatro dell’Opera di Roma nel nuovo allestimento di Hugo De Ana, con il debutto di Anna Caterina Antonacci nei panni di Ermione, ruolo che ha poi ripreso a Londra, San Francisco e Buenos Aires. Successivamente è stata la volta di Nelly Miricioiu a Bruxelles ed Amsterdam nel 1995 e, nello stesso anni, al Festival di Glyndebourne, Anna Caterina Antonacci è stata ancora una volta Ermione nell’allestimento di Graham Vick, del quale è stata realizzata anche una videoregistrazione. In anni più recenti l’opera viene ripresa con protagonista il soprano americano Angela Meade, che è stata Ermione a La Coruña, Mosca, Lione e Parigi, sempre con la direzione di Alberto Zedda e, in occasione delle esecuzioni francesi, con al fianco Michael Spyres, Pirro, Dmitry Korchak, Oreste ed Enea Scala, Pilade.
Oggi, al Teatro San Carlo, dove l’opera va in scena nel duecentesimo anniversario della sua prima esecuzione nel nuovo allestimento di Jacopo Spirei, Angela Meade torna ad essere protagonista al fianco di John Irvin, Pirro, Antonino Siragusa, Oreste e Teresa Iervolino, Andromaca. Sul podio dell’Orchestra del Teatro di San Carlo, Alessandro De Marchi. Un grande avvenimento, che conferma come all’Ermione si riconosca finalmente l’importanza che compete a questa partitura nella parabola compositiva dell’opera seria rossiniana.
4 novembre 2019
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Nelle ultime due foto:
Angela Meade, soprano
Jacopo Spirei, regista
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ERMIONE
Azione tragica in due atti su libretto di Andrea Leone Tottola tratto dalla tragedia Andromaque di Jean Racine
Prima rappresentazione: Napoli, Teatro di San Carlo, 27 marzo 1819
Direttore | Alessandro De Marchi
Maestro del Coro | Gea Garatti Ansini
Regia | Jacopo Spirei
Scene | Nikolaus Webern
Costumi | Giusi Giustino
Luci | Giuseppe Di Iorio
Assistente alla Regia | João Carvalho Aboim
Interpreti
Ermione, Angela Meade / Arianna Vendittelli (10 novembre)
Andromaca, Teresa Iervolino
Pirro, John Irvin
Oreste, Antonino Siragusa
Pilade, Filippo Adami / Julian Henao (10 novembre)
Fenicio, Guido Loconsolo / Ugo Guagliardo (10 novembre)
Cleone, Gaia Petrone
Cefisa, Chiara Tirotta
Attalo, Cristiano Olivieri
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Nuova Produzione del Teatro di San Carlo
SERIE BLU
giovedì 7 novembre 2019, ore 20.00 – Turno A
sabato 9 novembre 2019, ore 19.00 – Turno B
e in live streaming su operavision.eu
domenica 10 novembre 2019, ore 17.00 – Turno F
Il trailer del nuovo allestimento di ERMIONE di Rossini in scena al Teatro di San Carlo di Napoli.
Lo spettacolo è firmato dalla regia di Jacopo Spirei
Così Spirei commenta l’opera del Pesarese: «Ermione: opera di scelte, amore, dovere, potere e follia: a cosa si è disposti a rinunciare pur di ottenere quello che si vuole? Si può sacrificare il bene di una nazione per un interesse privato? E per amore? In quest’opera tutti sacrificano tutto e sono disposti a pagare un prezzo altissimo per le proprie scelte. In questa azione tragica, lavoro particolarissimo e sperimentale di Rossini, si cercano nuove vie per interpretare le debolezze dell’uomo mettendo al centro non un protagonista positivo ma un perdente, uno sconfitto, una tragedia del desiderio che diviene anche tragedia borghese. Per questo abbiamo deciso di indagare sulle pulsioni che spingono l’essere umano alle scelte più estreme: in un contesto di potere falsamente democratico, un popolo vincente e vincitore vede il proprio leader sedotto dal popolo sconfitto, e lo scontro che ne scaturisce porta al tracollo non solo i protagonisti ma anche un’intera società».