Uno sguardo sugli interpreti che diedero vita alla prima esecuzione londinese del Giulio Cesare in Egitto di Händel in attesa della andata in scena dell’opera al Teatro alla Scala, dal prossimo 18 ottobre 2019.

Di Alessandro Mormile

Giulio Cesare di Händel ritorna al Teatro alla Scala dopo ben sessantatré anni di assenza. Non appaia provocatorio se si afferma che è come se vi approdasse per la prima volta. All’epoca, infatti, le voci di Nicola Rossi Lemeni, Giulio Cesare, Virginia Zeani, Cleopatra, Giulietta Simionato, Cornelia, Mario Petri, Tolomeo e Franco Corelli, Sesto, seppur prestigiose, non potevano certo rispondere alle ragioni stilistiche di una prassi esecutiva lontana anni luce dalla correttezza, oggi rimodellata su criteri di “belcanto renaissance” e poi di “barocco renaissance” rinnovatisi e da ritenersi più attenti alla ricostruzione filologica dello strumentale e del canto antichi.

Non sapremo mai come realmente cantassero i primi interpreti che portarono al trionfo il Giulio Cesare di Händel a Londra, il 20 febbraio 1724, nell’ambito della stagione della Royal Academy of Music, ma riconosciamo, nelle voci selezionate per questo ritorno alla Scala di Giulio Cesare, le sensazioni emotive suscitate dalle cronache del tempo che le descrivono e, dalla analisi della partitura stessa, comprendiamo come il compositore avesse a cuore, secondo l’uso del suo tempo, la valorizzazione caratteriale di voci imbevute di belcanto; quel belcanto all’italiana che affascinava il pubblico inglese e che spinse un gruppo di nobili a fondare a Londra una società di concerti che prese il nome di Royal Academy of Music, sostenuta dal sovrano stesso, con Paolo Rolli e Nicola Francesco Haym in qualità di librettisti e Händel come “master of orchestra”. A quest’ultimo fu affidato l’onere di scritturare i migliori cantanti italiani del tempo e di far varcar loro la Manica, mentre ad altri compositori italiani, Attilio Ariosti e Giovanni Bononcini, il compito di cogestione artistica della società, che finì col metterli in aperta competizione. Tanto che, fra Händel e Bononcini, si scatenò una rivalità sulle scene del King’s Theatre di Haymarket, specchio di una altrettanto evidente esacerbata situazione politica: da una parte i Tories, avversi alla dinastia hannoveriana e con il sostegno del principe di Galles in contrasto col sovrano suo padre, schierati a favore di Bononcini; dall’altra i Whigs, che con il re Giorgio I sostenevano Händel insieme al primo ministro. La battaglia fra le due fazioni, incredibile a dirsi, si misurava a suon di trilli, messe di voce, agilità e virtuosismi di ogni altro genere sulle scene teatrali, tanto che Händel e Bononcini protrassero questa lotta artistica per diverso tempo; alla fine il “Caro Sassone” ebbe la meglio sul rivale. Una delle opere che fecero pesare l’ago della bilancia a favore di Händel fu appunto Giulio Cesare, dove l’eleganza di alcune belle melodie, di chiara ascendenza e modello bononciniano (un modo per osteggiare il rivale provando ad adottare il suo stesso stile), si fuse con il genio händeliano, più estroverso e ispirato, ma anche pronto ad una caratterizzazione dei personaggi maggiormente definita e chiara, teatralmente configurata attraverso una psicologia perfettamente allineata con le ragioni di un belcanto che, sia nella veste esteriormente belcantistica, sia in quella delicatamente patetica, è specchio di un libretto vincente, che Haym trasse, come era sua consuetudine fare, da altri fortunati testi poetici già precedentemente utilizzati. Nel caso di Giulio Cesare, da Giacomo Francesco Bussani, libretto che nel 1676 fu messo in musica da Antonio Sartorio per il Teatro di San Salvatore di Venezia. Al successo dell’opera contribuì, come detto, un cast di autentiche stelle vocali attive a Londra, che Händel seppe impiegare non solo per le qualità canore che ne facevano dei veri virtuosi, ma soprattutto utilizzando il belcanto per connotare personaggi che incarnano autentici caratteri.

Partiamo da Giulio Cesare e da Cleopatra, che furono sostenuti alla prima rispettivamente dal castrato Francesco Bernardi, detto il Senesino per la sua provenienza senese, e dal soprano Francesca Cuzzoni, che molti considerano il primo soprano puro della storia, una novità per tempi in cui la tessitura dei soprani gravitava in zone più centrali, con richiami talvolta anche alle sfere contraltili. Charles Burney scrisse di lei che “aveva una voce da soprano chiara e gradevole; un timbro puro e un ottimo stile negli abbellimenti: l’estensione della sua voce comprendeva due ottave dal do centrale fino al do acuto. Il suo stile era semplice ed espressivo; i suoi gorgheggi non apparivano artificiosi dato il modo limpido e spontaneo con cui li eseguiva, riuscendo a conquistare il cuore di ogni ascoltatore con la sua espressione tenera e commovente”.

Il Senesino, invece, come scrisse lo stesso Burney, “aveva una dolce voce da contralto, potente, chiara e uguale, perfettamente intonata e ottima negli abbellimenti. Il suo stile era perfetto e la dizione insuperabile; non appesantiva gli Adagio con troppe fioriture ma emetteva le note essenziali della melodia con la massima purezza. Cantava gli Allegro con grande vivacità ed eseguiva i trilli di petto, articolandoli in modo gradevole. Il suo fisico era adatto al palcoscenico, e si muoveva in modo naturale e nobile; inoltre aveva una figura veramente maestosa, più portata però ad impersonare un eroe che un amante”.

Questo permise ad Händel di imbastire un personaggio insieme eroico e innamorato, sempre in bilico fra impeto combattivo e languida estasi amorosa. L’orgogliosa indole del conquistatore veniva da un lato a deprecare l’uccisione di Pompeo e a prendere consapevolezza della fragilità umana con tono aulico nel sublime recitativo accompagnato “Alma del gran Pompeo”, monologo di alto involo tragico sull’urna che racchiude le ceneri di Pompeo, dall’altro a dispiegare una vocalità altamente virtuosistica in pagine d’impeto guerresco o di sdegno come “Presti omai l’Egizia terra”, “Empio, dirò, tu sei” e “Al lampo dell’armi”, nell’Andante “Va tacito e nascosto”, con accompagnamento obbligato del corno, o in Allegri come “Non è sì vago e bello il fior del prato” e l’arcadico “Se in fiorito ameno prato” (quest’ultimo con assolo di violino), in cui la melodia si sposa ad un languore che diviene poi estenuato patetismo in “Aure, deh, per pietà”, dove d’obbligo è mostrare la padronanza della messa di voce. L’apice del virtuosismo si tocca, come ben annota Rodolfo Celletti, nell’aria “Quel torrente che cade dal monte”, con lunghi vocalizzi “impostati su veloci sestine di semicrome inframmezzate a pause, ‘staccati’, arpeggi”.

Analogamente rifinito è il personaggio di Cleopatra, che subito si presenta con i tratti di una femminilità frivola quando si relaziona col fratello Tolomeo in “Non disperar, chi sa?” e “Tutto può donna vezzosa”, specchio del carattere fascinosamente volubile che la caratterizza; è una donna capace di sedurre e incantare, ma non è una maga, come era già stata Armida (in Rinaldo) e come sarà Alcina, bensì una donna che ammalia con la bellezza. Ecco perché sprigiona tutte le sue arti seduttive in pagine voluttuose come “V’adoro pupille” e “Venere bella”. In seguito, la frivolezza prende consapevolezza dell’amore, ed è a quel punto che la sua apparente superficialità si colora di patetica aristocraticità in arie di sublime malia quali “Se pietà di me non senti” e “Piangerò la sorte mia”, quando ormai la donna capace di sedurre con capricciosa noncuranza ha ceduto al sentimento vero dell’amore, che abbraccia con cullante abbandono alla melodia più espansa, così da donare spessore al personaggio, rendendolo trepidamente sentimentale. Ed anche quando il virtuosismo si fa vibrante e carico di trasporto nella vorticosa “Da tempeste il legno infranto”, si comprende come a cantare non sia più la donna frivola apparsa ad inizio d’opera, bensì la regina innamorata per davvero. Händel non si limita a dipingere con tale profondità musicale le figure dei due protagonisti.

Per la parte di Cornelia, la cui prima interprete fu Anastasia Robinson e che incarna la figura della vedova inconsolabile e sconfitta, Händel compose pagine che sono riflesso dal cordoglio nobile ed austero del personaggio, declinato in arie come il Largo “Priva son d’ogni conforto”, il Largo del duetto con Sesto “Son nata a lagrimar” e l’Andante “Cessa omai di sospirare!”; in esse la retorica del dolore e dell’inconsolabile sacrificio dinanzi alla perdita dell’amato consorte Pompeo si pongono in netto contrasto con la mutevolezza di sentimenti amorosi che contraddistinguono gli altri personaggi.

Cornelia è sempre accompagnata dal figlio Sesto; a lui è invece demandato il compito di desiderare vendetta per l’offesa subita dalla madre con giovanile trasporto e fervore adolescenziale in pagine che come “Svegliatevi nel core” e l’”Angue offeso mai riposa” (nei suoi panni “en travesti”, alla prima assoluta londinese dell’opera, ci fu il contralto Margherita Durastanti, già protagonista di Agrippina a Venezia, nel 1709, e poi di altre opere di Händel a Londra). Emblema della volubilità amorosa alla quale si accennava poc’anzi, anzi sinonimo di vizio, perversione e ambiguità che caratterizza l’ultimo faraone della dinastia tolemaica, è Tolomeo, sostenuto alla prima assoluta dal castrato Gaetano Berenstadt, al quale Händel dona pagine che ne evidenziano il subdolo agire combattivo (vedasi l’aria “L’empio, sleale, indegno”), ma anche la lascività al momento in cui, attorniato dalle favorite del suo serraglio, intona il breve arioso “Belle dee di questo core”, specchio del suo inappagato desiderio di sensualità senza freni inibitori.

Meno definito e forse più convenzionale è il personaggio di Achilla, generale di Tolomeo, che pur alla prima fu affidato ad un grande basso, Giuseppe Maria Boschi, prediletto da Händel per molte altre sue opere londinesi. La complessità di un’aria con frasi fitte di agilità come “Dal fulgor di questa spada” attesta come la parte fosse pensata per un grande vocalista.

Se spettacolare fu il cast della prima londinese, oggi alla Scala di Milano, per il ritorno di Giulio Cesare, la locandina degli interpreti schiera una compagnia di stelle del moderno barocchismo, con la bella Danielle de Niese come Cleopatra e quattro controtenori di assoluto prestigio: il contraltista americano Bejun Mehta, Giulio Cesare, i francesi Philippe Jaroussky, Sesto, singolare voce angelicata di sopranista, fra le più pure e cristalline, e per questo oggi celeberrima, e Christophe Dumaux, Tolomeo di comprovata bravura; infine l’italiano Luigi Schifano, Nireno. Completano il cast Sara Mingardo, Cornelia e Christian Senn, Achilla. Giovanni Antonini salirà sul podio dell’Orchestra della Scala su strumenti storici ed il nuovo allestimento reca nientemeno che la firma di Robert Carsen. Insomma un appuntamento che fa comprendere come la Scala si sia finalmente aperta al repertorio barocco, proposto ai massimi livelli, come già avviene da diversi anni in molti altri teatri del mondo.

Alessandro Mormile

Nelle foto (a partire dall’alto):

Frontespizio della prima edizione
del Giulio Cesare

Francesco Bernardi, detto il “Senesino”

Francesca Cuzzoni

Anastasia Robinson

Margherita Durastanti

Gaetano Berenstadt