Francesco Meli, grande protagonista, al Teatro Municipale di Piacenza di una serata dove si è esibito nel II atto di Simon Boccanegra, nel III atto di Aida per poi vestire, per la prima volta, i panni del Moro di Venezia cantando il IV atto di Otello.

Di Giancarlo Landini

 Premessa

Al Municipale di Piacenza va in scena Verdi Opera Gala. Nell’ordine si ascoltano il II Atto di Simon Boccanegra, il III di Aida, il IV di Otello. È una formula utilizzata negli States, ma assai rara in Italia. Attorno a un divo del canto si organizza una serata, diciamo così, a tema. In questo caso Verdi. Al pubblico piace. Ma temo che molti dei Direttori Artisti dei nostri teatri inarchino le ciglia, sdegnati come il padre Dante per quella, che agli intellettuali pare un cedimento all’edonismo canoro. Io, invece, mi sono molto divertito.

Qui la calamita era Francesco Meli, che si propone con due collaudate interpretazioni, Gabriele Adorno e Radamés, con in più il debutto, sebbene parziale, nei panni di Otello. Il Moro è il sogno dei tenori e l’approccio lascia presupporre che Meli stia iniziando la marcia di avvicinamento al titolo verdiano.

Francesco Meli

Il tenore ligure si va ormai identificando con il repertorio verdiano con risultati sempre apprezzabili. Il tenore di grazia degli esordi si è trasformato in un eccellente tenore lirico spinto, che ha le carte in regola per affrontare vocalità decisamente onerose come quelle dei tre personaggi oggetto di questa serata.

Meli, per prima cosa, ha dalla sua una voce decisamente fuori dal comune, di quelle che si fanno riconoscere per la particolarità del timbro. Il suo canto è animato, così mi sembra, da tre fattori: la coerenza, il fraseggio e i colori.

Per coerenza intendo la capacità di Meli di condurre le frasi e i pezzi, che lo riguardano, assecondando la tensione drammatica della linea melodica. Un primo esempio ce lo offre proprio l’Aria di Gabriele Adorno. Sia che si tratti della prima parte, “Sento avvampar nell’anima”, che della seconda parte, “Cielo, pietoso rendila”; Meli le conduce identificandosi con il climax così che i La di “Sento avvampar” o il Si bemolle di “Cielo pietoso rendila” risultino quello che sono: l’apice musicale della frase, il culmine emotivo del personaggio.

Si può riscontrare un’identica situazione in “Sovra una terra estranea”, dove il Si bemolle di “amori” è la conclusione di un percorso psicologico e non l’edonistico sfoggio di un pianissimo ben riuscito.

Il fraseggio è l’elemento decisivo della verdianità di Meli, che ha colto come il problema di questa vocalità, una volta sistemata la tecnica, consista proprio nel declamare la parola. Gli esempi offerti nella serata piacentina sono innumeri, tanto che ad elencarli tutti ci vorrebbe il capitolo di un libro. Pure non potrò tacere come Meli dice “Parla in tuo cor virgineo” oppure “Perdono, Amelia-Indomito”. La riuscita di “Niun mi tema” si realizza proprio in virtù del senso della frase, dell’accento verdiano che Meli ha maturato e che sarebbe ingiusto negargli. Così di frase in frase l’addio di Otello prende consistenza e acquista quella dignità che il Moro deve avere nel momento in cui si dà la morte. Non dirò che Meli sia l’unico Moro del mondo, né mi lancerò in quel tourbillon di aggettivi che amano i blogghisti; non farò paragoni in sede di recensione, ma, siccome non sono sordo, non sceglierò nemmeno la strada che oggi si usa: quella di non potere parlare del passato prossimo o remoto, perché deve esistere solo il presente. Nel Verdi di Meli si sente – mi riferisco ai La e ai Si bemolle, benché tutti fermi e ben emessi – il desiderio di uno squillo che, per esempio nel Terzetto dell’ Aida, dia ai Si bemolle di “Per te tradia la patria” una dimensione epica. È pur vero – in questo consiste il valore del Verdi di Meli – che il tenore ligure compensa con la forza dell’accento, con l’incisività della frase, conseguendo sempre un risultato di indubbio rilievo.

Poi ci sono i colori. Dalla Giovanna d’Arco della Scala in poi Meli ha imparato ad usare con intelligenza il canto a fior di labbro, a dipingere talune parole con il suono a mezza voce. Lo usa, assecondando le indicazioni verdiane, e lo mette sempre al servizio della frase. Basti ricordare l’effetto che si produce sul termine “silenzio” nel Duetto con Amelia o nella contemplazione di Desdemona morta. Meli ha chiaro che i colori e i conseguenti giochi di chiaroscuri sono parte integrante dell’interpretazione. Quanto ad Otello, in questo caso la partita è vinta. Nell’esecuzione integrale dell’opera vedremo. Mi sento, però, di affermare che Meli ha dato prova di essere non solo un ottimo cantante, ma un vero artista.

Il contesto e gli altri

Per approdare ad un Otello di riferimento o di rilievo ci sarà bisogno, intanto, di un contesto scenico registico, diverso da quello volonteroso di Federico Bertolani, che con qualche panello semovente, traslucido come il pavimento del palcoscenico e qualche arredo ha creato degli ambienti sufficientemente credibili, puntando sulla stilizzazione.

Gli eccellenti costumi di Artemio Cabassi, sempre pensati per valorizzare il fisico di ciascun cantante, completano felicemente il campo visivo.

Michele Gamba, alla testa dell’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini e del Coro del Teatro Municipale di Piacenza, preparato da Corrado Casati, ha badato a dare continuità e coerenza ai tre pannelli del trittico verdiano.

Attorno a Meli segnalo Serena Gamberoni, valida Amelia e accettabile Desdemona; mentre Vittoria Yeo è stata un’Aida discutibile per la tendenza  a gonfiare la voce alla ricerca di un timbro drammatico che forse non è il suo. Kiril Manolov ha vestito con dignità i panni di Simone e Amonasro, mentre nel IV Atto di Otello quella di Jago è solo una presenza. Michele Patti, Paolo Albiani, ha ribadito che ha voce importante, capace anche di forza nell’acuto. Credo, però, che ci sia da lavorare, a cominciare dal fraseggio fondamentale in quell’inizio del II Atto del Simon Boccanegra, dove Paolo esce allo scoperto. Completavano i cast il Fiesco e il Ramfis di Mattia Denti, dal quale mi aspettavo di più, il Pietro di Juliusz Loranzi, l’Amneris e l’Emilia di Cristina Melis, il Cassio di Lorenzo Izzo e il Montano del già citato Patti.

Successo vivissimo. Per una serata così particolare mi sarei aspettato un pubblico più numeroso. C’erano Verdi e un tenore di fama e carriera internazionale!

Piacenza, Teatro Municipale, 25 ottobre 2019