Giuseppe Verdi: OTELLO
Antonio Pappano, Orchestra e Coro della Royal Opera House, Jonas Kaufmann, Otello, Marco Vratogna, Iago, Maria Agresta, Desdemona, Frédéric Antoun, Cassio, Kai Rüütel, Emilia, Thomas Atkins, Roderigo, Simon Shibambu, Montano, In Sung Sim, Lodovico, Thomas Barnard, Araldo, Boris Kudlička, scene, Kaspar Glarner, costumi, Bruno Poet, luci, Micahel Barry, movimenti scenici, Keith Warner, regia, registrazione e ripresa effettuate il 28 giugno 2017.
T.T.: 150’+10′ bonus
Sony Classical (2 DVD)
Jonas Kaufmann è il più famoso tenore dei nostri giorni, acclamato dal pubblico, coccolato dal disco. Il suo Otello costituisce un evento. Toccherà a Kaufmann occupare il trono, lasciato vacante da Placido Domingo e rimasto senza eredi, nonostante numerose candidature, tra cui spicca quella di José Cura?
Se ben si guarda il Moro è un personaggio molto frequentato. Tracciare una mappa dei principali interpreti può essere utile per cogliere il contesto in cui va ad inserirsi l’artista bavarese. Abbiamo il gruppo costituito da tenori russo slavi, che rispondono al nome di Sergei Larin, Vladimir Galouzine, Aleksandrs Antonenko, Sergey Nayda, Nikola Nikolov, Vladimir Bogachev e, prima ancora Vladimir Atlantov. Tra di loro spicca Vladimir Galouzine per la frequenza e l’importanza dei risultati. Oppure gli italiani, da Nicola Martinucci, a Franco Bonisolli, a Giuseppe Giacomini, a Walter Fraccaro, a Marco Berti, Fabio Armiliato, tutti a diverso titolo epigoni di una scuola, i cui capostipiti rimangono Mario Del Monaco e, seppure ad un livello inferiore, Pier Miranda Ferraro. Unica eccezione quella di Carlo Cossutta che per anni ha realizzato un Otello di grande personalità sia vocale che interpretativa. C’è stato poi il sogno di un Luciano Pavarotti (Otello per una volta e in concerto), che forse avrebbe potuto rivelare aspetti nuovi e, per certi versi, inediti della vocalità e del personaggio. Ma nella scuola italiana, che pure ha dato alle scene Mori di indubbio valore (Martinelli, Merli) i sogni non sono mancati, da Caruso, a Corelli, a Bergonzi. Ma anche i sogni a metà: Pertile e Lauri-Volpi. Ci sono poi gli americani, tra cui l’immenso Jon Vickers, James King, James McCraken e Gregory Gunde, ultimo in ordine di tempo, ma non di valore.
Viene da chiedersi, inoltre, se Jonas Kaufmann debba essere considerato uno dei numerosi tenori di area tedesca che lungo tutto il secolo XX si sono avvicinati ad Otello o fuoriesca da questa schiera, i cui componenti, pur meritevoli, sono sempre rimasti in un ambito circoscritto. La lista è molto più lunga di quello che si possa pensare: Helge Roswaenge, Torsten Ralf, Franz Völker, Set Svanholm, Hans Hopf, Hans Rocker, Hans Beirer, Wolfgang Windgassen, senza dimenticare voci storiche come quelle di Leo Slezak o di Lauritz Melchior, con l’aggiunta dell’ungherese Sandor Konya e sud-africano John Botha.
Bisognerà intanto osservare che all’interno di questa nutrita schiera Jonas Kaufmann fa parte di quei tenori che cantano Otello in italiano e non in tedesco o in italiano e in tedesco. Sarebbe interessante anche procedere – la classificazione richiederebbe uno spazio eccessivo per una recensione – a dividere in base al tipo fisico realizzato, dagli Otello di colore, alla maniera di Tamagno, approvata e voluta dal Compositore stesso, a quelli berberi. Del Monaco, per es., passò spesso da un tipo all’altro. Il particolare non è senza importanza, specie se si fa riferimento al libretto (“i foschi baci di quel selvaggio dalle gonfie labbra”, così Iago a Roderigo nel I Atto). Nelle versioni cinematografiche Orson Welles e Laurence Olivier rimasero fedeli ad un Otello di colore, mentre Anton Hopkins scelse un tipo fisico diverso; in quelle teatrali italiane Vittorio Gasmann e Carmelo Bene si mantennero vicini alla tradizione.
La recensione potrebbe cominciare proprio da questo aspetto: che Otello fa Jonas Kaufmann? La connotazione razziale è elusa: non è un Otello di colore; è piuttosto un Otello (vagamente) berbero. Si tratta piuttosto di un giovane uomo, aitante, virile nei modi come si conviene ad un educato condottiero. In questo modo viene, però, a cadere una delle ragioni dell’odio di Jago che detesta il Moro per avergli preferito Cassio “in cento ben pugnate battaglie”, ma in più non lo sopporta perché il giudizio negativo, implicito nella mancata promozione, viene da una persona verso il quale si rapporta da razzista. Lo appella con sarcasmo “moresca signoria”. Nel I Atto della tragedia di Shakespeare, tagliato da Boito e da Verdi, lo scandalo dell’unione tra Desdemona e Otello consisteva anche nel fatto che il valoroso soldato era moro, a tal punto da essere chiamato il Moro di Venezia. Se non fosse stato moro, il padre di Desdemona si sarebbe irritato allo stesso modo? Lavorando di fantasia, su quello che non c’è, viene da chiedersi se tra le ragioni non dette di una gelosia così repentina e feroce, non ci sia anche quella di vedere svanire un amore che forse era un’infatuazione per un diverso (“e tu mi amavi per le mie sventure e io ti amavo per la tua pietà), ma in quanto tale debole. Che cosa sarebbe successo dei figli di Otello e di Desdemona, se ne avessero avuti nella società europea del ‘500? Si ponevano una domanda simile i coniugi progressisti e democratici di Indovina chi viene a cena, alias Spencer Tracy e Katahrine Hepburn. Tutto questo potrebbe sembrare una divagazione, ma non lo è se Kaufmann aspira ad una identificazione con questo personaggio e a farne, come si dice in gergo, una creazione.
Sotto questo aspetto, la lodevole e (a tratti) pregevole recitazione del tenore bavarese non approda ancora a un ritratto esaustivo, anche se ci sono molti spunti interessanti. Kaufmann fa un Otello franco, coraggioso, innamoratissimo della sua Desdemona e, per questo, molto fragile. Quando seda la rissa del I Atto è un uomo determinato, che subito dopo si abbandona nelle braccia della sua Desdemona. Nel II Atto più che un superbo governatore, sembra il primo degli ufficiali, una persona della cui ingenuità si può approfittare abbastanza facilmente. C’è da dire, però, che la regia di Keith Warner finisce per intralciare l’interpretazione di Kaufmann. Fin dall’inizio il regista gioca sul simbolo della maschera, manovrata da Jago. La maschera riappare nel II Atto, quando Otello, guardando verso il fondo della scena vede una presenza che la indossa. Nel finale del III Atto Jago non preme la fronte di Otello svenuto con il suo tallone, ma gli mette addosso un maschera nera; sono inutili i tentativi di ribellarsi, l’altro lo placca e poi (se così si può dire) lo soffoca. Nel IV Atto l’entrata di Kaufmann è molto nobile, avvolto nella vestaglia azzurra, con in pugno la scimitarra. Nella scena della morte c’è troppo sangue, ma anche in questo caso la regia finisce per impedire in tutto o in parte la maturazione di un personaggio autonomo e ben definito.
Veniamo alla voce. In prima battuta potremmo osservare che anche Kaufmann, alla maniera di altri tenori che si sono cimentati con Otello, condivide la qualifica di Heldentenor, ma mi sembra che non possa essere assimilato a cantanti come Set Svanholm o Wolfgang Windegassen. C’è infatti a monte un rapporto ben diverso con il repertorio italiano che caratterizza il suo modo di cantare. Mi sembra invece che possa essere avvicinato a Jon Vickers. Come il tenore canadese possiede un’ottima tecnica di canto e può così assecondare le esigenze di una vocalità che non può essere risolta con la declamazione. Ne guadagnano il Duetto, che chiude il I Atto e “Dio!mi potevi scagliare”, dove il passaggio “o pianto o duol m’han rapito” è perfetto. Rispetto a Vickers poi la voce è decisamente più bella. Ci sono, però, delle controindicazioni che, a mio avviso, dipendono da quella sua strana prima ottava che presenta, come sempre, sonorità soffocate. Così nel Duetto del I Atto, la prima frase, “Già nella notte densa” richiederebbe la calda cavata di un violoncello per rendere l’erotismo della melodia, continuando con la voce le sonorità dell’orchestra. L’intelligenza e la tenacia di Kaufmann possono molto, ma non tutto. In questo caso il timbro caldo, latino ed appassionato di Domingo realizzava d’emblée la situazione. Allo stesso modo la sua prima ottava fa sì che più di una frase finisca per non ottenere un effetto completo, dal momento che i suoni foschi finiscono per oscurare talvolta le parole o comunque per togliere alla declamazione tutto l’incisività necessaria. Ma in questo caso – so di essere in controtendenza e non politicamente corretto – la declamazione di Del Monaco (penso a “nelle sue spire l’idra…”) non ha confronti. Si dovrà, però, ammirare la tenacia con cui non solo Kaufmann affronta la parte, superandone il momento più difficile – vale a dire il II Atto, il cui costo vocale è altissimo -, ma anche cesella frase per frase parola per parola. È qualcosa di più di una vittoria ai punti, anche se chi cercherà uno squillo gagliardo sia in “Ora e per sempre addio” o “Sì pel ciel marmoreo giuro”, potrà trovare esempi più convincenti e acuti più argentini. Quello che, però, candida Kaufmann ad Otello di riferimento è la coerenza e la costanza dell’interpretazione che passa dalla determinazione dell’”Esultate” e di “Abbasso le spade”, ai turbamenti del Duetto con Desdemona del I Atto, alla disfatta psicologica del II Atto, alle frasi della controscena del Duetto Jago-Cassio, “Dove son giunto”, al pesante sarcasmo del Duetto con Desdemona del III Atto, alla rabbia del finale del III Atto e alla nobiltà (credo che nessuno gliela possa negare) con cui intona “Niun mi tema”.
Attorno a Kaufmann si agita lo Jago di Marco Vratogna che, almeno a me, desta sensazioni contrastanti; trovo che il cantante, giudicato dal punto della mera esecuzione vocale, sia modesto, si avvicini spesso al parlato, usi falsetti in luogo di mezzevoci; eppure l’interprete è talmente intelligente ed acuto, da capovolgere la situazione. Non so che cosa potrebbe fare alle prese con altri personaggi verdiani da cantare con voce spiegata, ma qui è uno Jago straordinario: un grande esempio di cantante-attore. Non una frase, non una parola va persa; è mellifluo, insinuante, determinato, apparentemente molle, spesso duro, durissimo, rancoroso, cattivo. Se poi, come in questo caso, lo vediamo in azione lo Jago di Vratogna è un capolavoro; ha il physique du rôle per essere un anti-eroe. Disegna uno Jago abile contemporaneamente goffo, sa fingersi indifeso e un minuto dopo luciferino, usa un’incredibile tavolozza di gesti e di sguardi; è in azione anche quando non canta. Sta benissimo nella regia dello spettacolo e fa suo il gioco della maschera. Vedendolo si può capire, perché il vero protagonista dell’opera di Verdi, sia Jago. Il regista, peraltro, è dello stesso parere. All’aprirsi del sipario, infatti, c’è lui. Solo al suo gesto, l’orchestra attacca e l’opera comincia. Il significato è chiaro: è Jago che sospinge l’azione. I limiti vocali, poi, salvano il suo Jago da quei passaggi tonitruanti con i quali grandi voci hanno afflitto “Credo in un Dio crudele”, mentre l’attore evita con ogni cura ogni atteggiamento gran-guignolesco. Siamo, insomma, di fronte ad uno Jago di riferimento.
Maria Agresta è una eccellente Desdemona. La voce è di pregio per la bellezza dell’impasto specie nella regione centro acuta più che nel timbro centro grave. Conduce il canto con musicale precisione assecondando le intenzioni del Compositore e costruendo un personaggio sempre credibile. Si può comprendere che Otello si innamori di questa donna così signorile nel tratto così capace di assecondare le debolezze di un marito coraggioso e un poco infantile. Non so se sia una soluzione della Agresta stessa o del regista, ma la conduzione del Duetto del I Atto ben rende questo tratto quasi materno di Desdemona, quando ella si tiene in grembo il capo dell’amore che le giace supino ai piedi. Se si tratta di un’idea del regista, bisogna, però, osservare che l’Agresta la realizza con grande naturalezza. Così come rende con naturalezza lo stupore della donna di fronte alle ire del marito prima nel II e poi nel III Atto. Tra i momenti più riusciti della sua prestazione ci sono da segnalare il Concertato che chiude il III Atto e la Scena che apre il IV. Il Concertato è un pezzo singolarissimo: Maria Agresta trova nella voce il dolore e l’angoscia, con un canto trepido e appassionato. La Canzone del Salice e l’”Ave Maria” ci mostrano la fraseggiatrice che sa riempire il suo bel canto di espressione, mentre ci regala note acute ben tenute, limpide e sfumate come occorre.
Accettabili le parti di fianco, anche se il Cassio di Frédéric Antoun non è niente di speciale; nella sua voce non si realizza il miracolo vago dell’aspo e dell’ago. Il ricamatore dovrebbe possedere ben altra perizia tecnica nello sfumare e nell’alleggerire i suoni.
Sul podio troviamo Antonio Pappano che, ben assecondato dalle Masse Artistiche del suo Covent Garden, si conferma un formidabile uomo di teatro. L’azione musicale è mirabilmente condotta: orchestra e palcoscenico stanno in giusto equilibrio; ogni aspetto della partitura è reso con precisone; le atmosfere sono adeguatamente differenziate, dalla tempesta, che apre il I Atto, al dolce notturno, che lo chiude; così fino alla fine dell’opera. Ma – sarò incontentabile- l’interprete sembra pago di fare funzionare la macchina, piuttosto che scavare nel dettato verdiano, dando alla Tempesta in un che di tellurico, al Duetto d’amore una dimensione da ultima Thule della felicità, al Brindisi malefico di Jago un impeto inesorabile, invece di scandirne puntualmente e diligentemente il ritmo. Proprio in quanto uomo di teatro la sua concertazione non conosce mai momenti di stanchezza e ogni scena è onorata, con in più l’esecuzione completa del Concertato del III Atto, di cui in genere viene servita una versione abbreviata. Questo il merito e questo il limite.
Registrazione e riprese splendide. Quest’ultima è alle prese con uno spettacolo di taglio tradizionale, inquadrato da una scenografia stilizzata, fuori dal tempo, che viene indicato con chiarezza dai costumi. Le masse Corali sono statiche e l’azione si concentra nei gesti dei cantanti. La macchina da presa ha dunque un compito abbastanza facile. Trovo, però, che qualche particolare – per es. il gioco della maschera – poteva trovare maggiore accoglienza nell’obbiettivo.
Di Giancarlo Landini